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Come se fosse la felicità

rabbia-2Ho due figli, di sedici e quattordici anni. So che può sembrare un luogo comune, ma davvero sono la mia vita. Non c’è un altro modo per dirlo. Una cosa che certamente ho fatto è stata insegnare loro i valori della vita, quelli che mio padre mi ha trasmesso, quelli che ho appreso crescendo e confrontandomi con il mondo circostante. Anche perché Roma ti offre la possibilità di confrontarti con tutto e tutti, col bene e con il più basso inferno. Poi, col lavoro che faccio, è ancora più facile.

Ho raccontato ai miei ragazzi che il mio ingresso in Polizia è stata come un’illuminazione. Dissi loro che da piccolo avevo assistito a uno scippo, che i delinquenti in motorino avevano trascinato per diversi metri una povera vecchina: da quel giorno decisi di diventare un giustiziere, di stare dalla parte della legge per aiutare i più deboli. Una storia bellissima. La verità è ben altro. Finisci la scuola in un paese del sud, e poi il pane da mangiare serve, e allora ti spulci i concorsi più delle guide per l’università.

Parole al vento

RABBIAQuando mamma veniva a svegliarmi la mattina io stavo almeno dieci minuti a lamentarmi. Era quasi un rituale, e lei insisteva che si faceva tardi, che mi lasciava a casa, che un minuto e poi basta. Mamma era così, poca pazienza e poche parole. A pensarci oggi, quasi trent’anni dopo, la capisco pure. Tutto da sola, tutto di corsa e un capriccio continuo da parte mia. Che poi era un capriccio silenzioso. Più che altro non facevo nulla, non parlavo, non ridevo, non la coccolavo. Lei nemmeno.

Io mi ricordo

othlawNon è una cosa di oggi. Alla fine sin da quando ero piccolo mio padre mi portava al baretto. Di fatto restavo a guardare quei tavoli di legno scuro e ascoltavo monasticamente le loro imprecazioni. Sembrava che ogni carta che avevano in mano conservasse in sé una bestemmia. Ho sentito nomi di santi dimenticati e appellativi alla vergine santa che in ogni modo la etichettavano tranne che nella santità. Mamma non era contenta, eppure mi ci mandava lo stesso. Lo sapeva che era lì che imparavo le parolacce, eppure continuava a dare la colpa ad Aldo, mio cugino più grande. Diceva che aveva una brutta influenza su di me. I racconti del bar differivano molto da quelli che mi faceva Aldo. Mio cugino era più bravo a raccontare, mi teneva in tensione e mi provocava una vera e propria erezione. Tutte quelle cose che faceva con Anna, e con Francesca. Mi sembrava di vedere un film. Al bar erano poco più che fotografie, giusto qualche battuta che finiva sempre allo stesso modo e sempre con la risata generale di tutti.

Da cancellare

percorsidifficilivn6Quella volta eravamo io, Rossella e Michele. Forse la quarta volta in cui Rossella mi prometteva che non sarebbe successo nulla, che anche Michele aveva piacere a stare con me, ma che non era tanto sicuro, e voleva passare un po’ di tempo tutti insieme. Come al solito sono andata a casa di Rossella, ho salutato la mamma e sorridendo sono uscita insieme a lei. Dopo un giro al parchetto, siamo di nuovo andati là, al 12, il palazzo dei vecchi, e ancora ci siamo seduti lì a chiacchierare. Poi, appena mi sono voltata per prendere la sigaretta che avevo rubato a papà, eccoli che ricominciano a baciarsi. Ed ecco che di nuovo mi sono salite le lacrime.

Gli uomini sono tutti uguali

trapMi chiamo Francesca, ho trentadue anni e faccio la barista. Oggi si usa bartender, che è più figo e non è a uso esclusivo degli uomini, tipo i barman. Che poi in realtà le bartender fanno i cocktail, quando io più di un campari col gin o uno spritz non vado. Quindi va bene barista. Che poi è un bel bar, grande, coi gratta e vinci e le sigarette, le slot. C’è sempre un casino di gente. A ventitre anni non credevo che avrei fatto la barista. Mi stavo laureando in sociologia. In realtà volevo iscrivermi a psicologia, ma non ho passato la selezione del numero chiuso, e per non perdere l’anno ho pensato di iscrivermi a sociologia, fare gli esami in comune e poi fare il passaggio l’anno dopo.

Solo una domanda

Se ci penso alla fine è stato un attimo. Un dettaglio che ai più parrebbe irrilevante. Le ho chiesto “Chi è a quest’ora?”. Niente di più sciocco, solo una domanda. E mi ha risposto facendomi un nome che non corrispondeva a quello che avevo involontariamente letto. Sai, senti il trillo sul telefono e istintivamente guardi chi è. Poi, per gioco o per abitudine fai la domanda. Ma mi ha detto un altro nome. Sempre istintivamente ho accettato la risposta con un’espressione da attore navigato e ho continuato a guardare la tv. Da quel momento in poi sono entrato in un vortice di delirio. Perché mi detto un altro nome? Scherza? Mi mette alla prova? Non mi sono più placato, avevo una sola cosa in testa, come un’ossessione. Hai presente quando dici “non ero in me”? Ecco, lo sintetizza alla perfezione.