Il primo vero fastidio l’ho provato in saletta. Ero lì, in mezzo ai cabinati dai mille colori che facevano da colonna sonora, con canzoni ovviamente diverse che suonavano in contemporanea ma grosso modo appartenenti allo stesso genere. Tra i vari Tekken, Street Fighter, Puzzle Bobble, Pang e chi più ne ha più ne metta, io sceglievo il primo. E mentre pregavo che gli spiccioli dei nostri genitori fossero infiniti, con mio fratello perso da qualche altra parte, succedeva, ma in realtà sarà successo al massimo tre volte, che arrivava questo tipo e mi si appiccicava dietro. E io non lo sopportavo, perché inevitabilmente mi faceva sbagliare. Ero convinto fosse lì per quello, per farmi sbagliare, eppure il fastidio era più viscerale, che la pancia mi richiedeva di fare qualcosa per interrompere tutto, fermare la musica, dare fuoco alle persone.
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Dio mi benedica
Certe sere te le ricordi perché sei sicuro solo di una cosa. Nel momento esatto in cui arrivi in un posto, sai che essere altrove avrebbe significato cambiare tutta la tua vita da niente. Ovunque ma non lì. Da nessuna parte se non lì.
Ma prima non lo sapevo, e giacché la condiscendenza ha sempre esaltato un lato del mio carattere, quello che mi fa amare dalle mamme e odiare dagli ex fidanzati, deridere dagli amici e invidiare dai nemici, affronto il mio destino. Ho detto sì a una serata di beneficenza. Nutrendo profonda fiducia in Étienne Liebig e nel suo “Come sedurre la cattolica sul cammino di Compostela”, certo che dove esiste un posto che raccoglie fondi per il Congo, là si trova un numero imprecisato di giovani fanciulle che provano a sublimare con la beneficienza l’intrinseco e profondo desiderio di svelare quanto si dice circa l’Africa e agli uomini che la popolano, ho detto sì.
La scrivania senza cassetti
La prima immagine che mi viene in mente è quella di un criceto. Nella gabbia, con qualcuno che provvede al suo sostentamento, e una ruota che gli dà l’illusione di muoversi dal luogo in cui si trova. E poi quando si ferma sta sempre lì.
Così vivo io, a ventotto anni, in un monolocale di quella che una volta era periferia, e che oggi pare il centro del mondo. Mia madre vive con me, quaranta metri e un letto, un tavolo e una scrivania di quelle che hanno solo le gambe e nessun cassetto per metterci dentro l’erba, che se mia madre scoprisse che mi faccio qualche canna ogni tanto penso che le si spezzerebbe il cuore.
Le briciole
Non era così carino. Anzi, i tratti del volto mi hanno distratto per un bel po’ dai contenuti dei suoi discorsi. Se dovessi dire cosa avesse tanto da raccontare quella sera a Lucia, non metterei insieme due frasi. Tant’è che quando mi ha inviato quel messaggio su facebook, pregandomi di potermi chiedere l’amicizia, ci ho messo prima un po’ a capire chi fosse, e poi ho pure pensato che questo eccesso di zelo fosse stucchevole. Al primo like devo dire che ho fatto caso alla foto scelta, e ci ho visto un’attenzione. Ho iniziato a pensare che non lasciasse nulla al caso. Come un fiume che finisce in una cascata eccomi a scambiare pareri, opinioni, commenti su abiti e taglio di capelli, della simpatia di Lucia e della fortuna che quella sera fossi uscita con lei. Bang! Tre ore dopo eravamo in una camera d’albergo. Di pomeriggio. Per la prima volta in un albergo a scopare.
Come se fosse la felicità
Ho due figli, di sedici e quattordici anni. So che può sembrare un luogo comune, ma davvero sono la mia vita. Non c’è un altro modo per dirlo. Una cosa che certamente ho fatto è stata insegnare loro i valori della vita, quelli che mio padre mi ha trasmesso, quelli che ho appreso crescendo e confrontandomi con il mondo circostante. Anche perché Roma ti offre la possibilità di confrontarti con tutto e tutti, col bene e con il più basso inferno. Poi, col lavoro che faccio, è ancora più facile.
Ho raccontato ai miei ragazzi che il mio ingresso in Polizia è stata come un’illuminazione. Dissi loro che da piccolo avevo assistito a uno scippo, che i delinquenti in motorino avevano trascinato per diversi metri una povera vecchina: da quel giorno decisi di diventare un giustiziere, di stare dalla parte della legge per aiutare i più deboli. Una storia bellissima. La verità è ben altro. Finisci la scuola in un paese del sud, e poi il pane da mangiare serve, e allora ti spulci i concorsi più delle guide per l’università.
Una volta soltanto
Tutto volevo tranne che passare una serata a sentire quei tre, che sapevo non avrebbero fatto altro che i saputelli, splendidi e tristi, su qualunque argomento proposto, purchè mettesse in evidenza la mia ignoranza. Su una sola cosa non erano ferrati, stupidi nerd. Sulla bellezza di Angela, che quella sera, chissà perché, aveva deciso non solo di accompagnarmi, ma anche e soprattutto di farmi fare un figurone con gli idioti che avrei dovuto incontrare a cena. Splendida è riduttivo. Le è bastato un jeans, le scarpe giuste e quella cavolo di magliettina con su la stampa di Audrey Hepburn per sprigionare una quantità di classe ed eleganza che i primi venti secondi che l’ho vista quando sono andato a prenderla sono andato in apnea. L’incredulità sui volti dei commensali quando lei ha cominciato a raccontare come ci eravamo conosciuti, come l’avevo sedotta e soprattutto quale grande baciatore fossi, mi faceva contorcere lo stomaco.
Non sono come le altre
La prima cosa che rispondevo era che si trattava di idioti, ragazzini tutto piscio e vento, sfigatelli segaioli. Però mi facevano incazzare eccome. Anche quando ne parlavo con le altre, ostentavo superiorità e loro mi davano ragione. Eppure ci stavo male, sotto sotto avrei voluto prendere quelle teste di cazzo e spaccarle una a una contro il muro. Soprattutto al mare, quando non c’erano maglie e tute che potessero in qualche modo imboscare tutta la carne e l’anima che mi portavo appresso.
Ne vale la pena
La cosa che mi colpì di più da piccolo era la convinzione che aveva mia zia. Una volta la sentii parlare con mamma. Secondo lei avrei dato molti meno problemi da morto. Ecco, l’ho detto. Si, perché lei era della vecchia scuola, quella che i maschi se la devono cavare da soli, che devono portare i soldi a casa. E io porto giusto i soldi della pensione, e quelle trecento euro che mi danno alla Regione per un lavoro che non serve, tranne che a candeggiare l’anima di qualche politico.
Parole al vento
Quando mamma veniva a svegliarmi la mattina io stavo almeno dieci minuti a lamentarmi. Era quasi un rituale, e lei insisteva che si faceva tardi, che mi lasciava a casa, che un minuto e poi basta. Mamma era così, poca pazienza e poche parole. A pensarci oggi, quasi trent’anni dopo, la capisco pure. Tutto da sola, tutto di corsa e un capriccio continuo da parte mia. Che poi era un capriccio silenzioso. Più che altro non facevo nulla, non parlavo, non ridevo, non la coccolavo. Lei nemmeno.
Il vento dappertutto
La frase che in quel momento mi stava martellando il cervello era una sola. “Fallo, voglio proprio vedere”. Come una provocazione, come uno sfottò. Io ero serissima. Ma mi precedeva la mia storia di annunci grandiosi e mai realizzati, cose tipo “me ne vado a vivere a New York”, “mollo tutto, non ce la faccio più”. Oppure la mia tristezza non traspariva del tutto. Che poi io la chiamavo tristezza, ma in realtà credo fosse più che altro frustrazione. Perché a trent’anni suonati non puoi stare così, senza una soddisfazione, senza un sorriso. Mi sono accorta che le persone intorno hanno smesso mano a mano di ascoltarmi, di coccolarmi, di accarezzarmi.