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Come se fosse la felicità

rabbia-2Ho due figli, di sedici e quattordici anni. So che può sembrare un luogo comune, ma davvero sono la mia vita. Non c’è un altro modo per dirlo. Una cosa che certamente ho fatto è stata insegnare loro i valori della vita, quelli che mio padre mi ha trasmesso, quelli che ho appreso crescendo e confrontandomi con il mondo circostante. Anche perché Roma ti offre la possibilità di confrontarti con tutto e tutti, col bene e con il più basso inferno. Poi, col lavoro che faccio, è ancora più facile.

Ho raccontato ai miei ragazzi che il mio ingresso in Polizia è stata come un’illuminazione. Dissi loro che da piccolo avevo assistito a uno scippo, che i delinquenti in motorino avevano trascinato per diversi metri una povera vecchina: da quel giorno decisi di diventare un giustiziere, di stare dalla parte della legge per aiutare i più deboli. Una storia bellissima. La verità è ben altro. Finisci la scuola in un paese del sud, e poi il pane da mangiare serve, e allora ti spulci i concorsi più delle guide per l’università.

Non me ne frega niente

alla-fine-ogni-cosaNon mi è ben chiara questa cosa. Ormai mi sono abituato e va bene, e soprattutto non me ne frega niente di me, come di nessun altro. Lo so, non sono stato una brava persona, e probabilmente non lo sono ancora. Sono dell’idea che se uno ha pochi chiodi fissi, non ha fantasia ma sicuramente si diverte di più. Per esempio io non leggo. Lo dico pure con una punta di orgoglio. Non leggo e non me ne frega niente, perché leggere mi ha sempre fatto pensare che non avessi nulla di meglio da fare. E altro non volevo che fare qualcosa. Quarant’anni fa Roma era una meraviglia, bianca da schiantarsi al sole. Roma era mia, e non c’era niente da fare, dove andavo mettevo tende.

Sto andando bene

Non era molto il tempo che dedicavo a ‘sta cosa. Più che altro mi sembrava un passatempo. Poi è successo qualcosa. Ho creduto di vincere. Se ci pensi bene, tutto è un’illusione, tutto il resto della vita intendo. Alla fine me lo aveva provato a spiegare mia madre. Mio padre no, lui a forza di botte me lo spiegava. Io lo chiamavo papà, ma non lo era. Era una giraffa in divisa, contornata di lacchè e buoni propositi, fatti di virtù e serietà. Gli ho creduto fino a quando non ho avuto alternative. Le botte quelle sì, me le meritavo. Ho fatto tutto quello che non dovevo, quasi letteralmente, fino a spaccargli la testa. Non è morto, ma quella non l’ha retta neanche mia madre, che ha pensato bene che l’unico modo per salvarmi era mandarmi via.