Il primo vero fastidio l’ho provato in saletta. Ero lì, in mezzo ai cabinati dai mille colori che facevano da colonna sonora, con canzoni ovviamente diverse che suonavano in contemporanea ma grosso modo appartenenti allo stesso genere. Tra i vari Tekken, Street Fighter, Puzzle Bobble, Pang e chi più ne ha più ne metta, io sceglievo il primo. E mentre pregavo che gli spiccioli dei nostri genitori fossero infiniti, con mio fratello perso da qualche altra parte, succedeva, ma in realtà sarà successo al massimo tre volte, che arrivava questo tipo e mi si appiccicava dietro. E io non lo sopportavo, perché inevitabilmente mi faceva sbagliare. Ero convinto fosse lì per quello, per farmi sbagliare, eppure il fastidio era più viscerale, che la pancia mi richiedeva di fare qualcosa per interrompere tutto, fermare la musica, dare fuoco alle persone.
Era quel pisello appiccicato alla mia schiena che arrivava in profondità, e non i suoi jeans nè il mio maglione potevano nulla. Sì, perché ero alto un metro e poco, mentre lui sembrava Pippo, l’amico di Topolino, allampanato e profondamente scostante. E quando alla fine sbagliavo davvero e non riuscivo a segnare il mio nome, le mie tre lettere, mi urlava “e allora Giuliè, quanti ne hai sopra stavolta?” boh, io rispondevo, mica capivo il doppio senso. Ma lui sì, era più grande, aveva diciott’anni, e io quattordici. Per me stava solo provando a bullizzarmi, come avevano fatto in tanti, già dalle medie. Per come parlavo, per come mi muovevo. “Ricchione” era la parola più comune, al punto che non mi infastidiva neanche più. O meglio, la odiavo quella parola, ma era entrata talmente tanto nella mia quotidianità, che mi faceva l’effetto di un fischio all’orecchio. Forse lui lo sapeva, o ne aveva il sentore. Aveva visto prima di me quello che a me pareva semplicemente incomprensibile. Era un paese di poco più di tremila anime, ci conoscevamo tutti, alle superiori prendevamo tutti la stessa corriera che ci portava a Roma. Poi succede che perdi la corriera e compare lui, allampanato e sorridente, a offrirmi il suo passaggio. Non era fastidioso, anzi. L’ho trovato simpatico, spigliato e per certi versi protettivo. Da lì, dopo un po’, divenne automatico andare e tornare con lui, intrattenermi qualche minuto in più e continuare a ridere. Le mani, quelle sì che me le ricordo, mentre fingevamo di picchiarci, schiaffeggiarci, poi lui afferrava la mia nuca e ci schiacciavamo le fronti. Quando mi baciò la prima volta, mentre pensavo “finalmente” urlai “che cazzo fai?”. Lui sbiancò, finse di ridere e andò via. Avevo sedici anni e lui venti.
Ieri mi ha visto entrare al circolo, per la prima volta, dopo quindici anni. Era all’infodesk. Stavolta ho sbiancato io. E poi mi sono messo a ridere, e gli ho detto “sì, avevi ragione tu”. La sera stessa ci siamo presi una birra, e gli ho raccontato tutto. Delle mie fidanzate, durate pochi inutili mesi, dei fastidi, della frustrazione, delle bugie, degli incontri occasionali. E degli annunci, del sesso a tre e la scoperta che sì, davvero il corpo maschile mi piaceva. Non solo mi piaceva, lo desideravo, lo bramavo. Ho saltato la parte delle botte, della vergogna, delle liti coi miei, del lavoro a Roma che mi ha fatto andare via da quel buco di paese. Non gli ho detto che quel bacio mi era piaciuto, e che me lo sono portato dietro fin qui. E non so cosa abbia pensato lui di me, non so cosa non mi abbia detto lui. Quello che mi ha detto è stato solo “non sei il solo, e per fortuna o purtroppo non lo sarai mai”.