Come se fosse la felicità

rabbia-2Ho due figli, di sedici e quattordici anni. So che può sembrare un luogo comune, ma davvero sono la mia vita. Non c’è un altro modo per dirlo. Una cosa che certamente ho fatto è stata insegnare loro i valori della vita, quelli che mio padre mi ha trasmesso, quelli che ho appreso crescendo e confrontandomi con il mondo circostante. Anche perché Roma ti offre la possibilità di confrontarti con tutto e tutti, col bene e con il più basso inferno. Poi, col lavoro che faccio, è ancora più facile.

Ho raccontato ai miei ragazzi che il mio ingresso in Polizia è stata come un’illuminazione. Dissi loro che da piccolo avevo assistito a uno scippo, che i delinquenti in motorino avevano trascinato per diversi metri una povera vecchina: da quel giorno decisi di diventare un giustiziere, di stare dalla parte della legge per aiutare i più deboli. Una storia bellissima. La verità è ben altro. Finisci la scuola in un paese del sud, e poi il pane da mangiare serve, e allora ti spulci i concorsi più delle guide per l’università.

Diciotto anni in Polizia. Un gran lavoro, la strada, le manifestazioni, le risse da bar. Noi ci siamo, io e il mio collega. Abbiamo un buon affiatamento, ci leggiamo negli occhi, sappiamo cosa farà l’altro un attimo prima che lo faccia, e questo tante volte ci ha salvato il culo.

Era un controllo, come diecimila altri controlli, e quella faccia ci aveva già preparato a un livello di guardia più alto. Che fai, quando vedi quegli occhi, riconosci i segnali, il fastidio che stai dando a uno che non vuole essere scocciato. Esagitato, con gli occhi a palla, non più di vent’anni. Sbraita, salta da un posto all’altro, dice che non so chi è lui. Mille parole al secondo, una gran confusione, e poi, come accade quando in mezzo al caos senti il tuo nome, tira fuori il coniglio dal cappello, urla più volte che si è scopato Ilenia, e ad ogni mio “che cazzo dici?” lui insiste, coi dettagli, coi poster della sua cameretta, coi posti dove si sono fatti insieme, con il mio indirizzo di casa, col mio nome.

Non ce l’ha fatta Alfredo a fermarmi, e nel divincolarmi gli piazzo una gomitata sul naso. E il veleno di quel momento si trasforma in fuoco, adrenalina pura, aveva vent’anni, pesava trenta chili, ci ho messo un attimo a stenderlo, e non il rosso che aumentava sulla sua faccia, non le urla, che a malapena sentivo, ma solo il freddo delle manette di Alfredo mi hanno fermato. Cinque minuti, non di più. Con Alfredo che mi solleva con una mano chiedendomi se mi rendessi conto di cosa avessi fatto.

Non si toglieva dal mio viso quell’espressione di soddisfazione e gioia. Andava bene così. Io immobile con quelle cinque dita al collo, il ragazzetto a terra. Anche lui immobile.