La frase che in quel momento mi stava martellando il cervello era una sola. “Fallo, voglio proprio vedere”. Come una provocazione, come uno sfottò. Io ero serissima. Ma mi precedeva la mia storia di annunci grandiosi e mai realizzati, cose tipo “me ne vado a vivere a New York”, “mollo tutto, non ce la faccio più”. Oppure la mia tristezza non traspariva del tutto. Che poi io la chiamavo tristezza, ma in realtà credo fosse più che altro frustrazione. Perché a trent’anni suonati non puoi stare così, senza una soddisfazione, senza un sorriso. Mi sono accorta che le persone intorno hanno smesso mano a mano di ascoltarmi, di coccolarmi, di accarezzarmi. Un lavoro inutile e stupido in un asilo, che se prima almeno i bambini mi davano soddisfazione, poi mi sono stati sulle palle pure loro. Non un fremito, uno shock… E Guido sempre più lontano. Non ci toccavamo da settimane, per la stanchezza, la frenesia, e pure secondo me per quella stronza di Laura, la nuova collega, bella, bionda, coi capelli lisci.
Una stretta alla gola, quel giorno, e l’impellenza, il non poter più rimandare. Sono salita in macchina all’ora di pranzo, in pieno giorno e nel traffico. Sapevo esattamente dove andare, solo che i chilometri mi sembravano tanti. Quell’ora è passata in un minuto, tra i pensieri delle facce sdegnate, dei vari “poverina” a cui mi stavo abituando, e io la odio questa etichetta. Si fottano tutti, mi lascino andare, mi tolgano le mani dal collo. Che così sembra, sempre a giudicare, a martoriare il mio modo di pensare. Andate tutti a fanculo.
Mando il messaggio a Guido e mi tolgo le scarpe. Non avevo calcolato la scomodità dei tacchi. Un respiro profondo. Sento come una lama che viaggia sulla pianta dei piedi, fredda e spietata. Mi sembra di essere sul bordo del mondo. Respiro ancora. Chiudere gli occhi mi dà un capogiro che per poco non casco di sotto. Poi penso che sono lì per quello. Aprendo gli occhi mi accorgo che si è creato un capannello di gente intorno, ma sarà la tensione, sarà il fischio all’orecchio, non distinguo bene quello che stanno dicendo, stanno urlando. Quel vociare mi sa ancora di giudizio. Si fottano tutti. Provo a staccare i piedi con un bel salto. Niente. Le gambe sono pietrificate. Come marmo. Quello che sento è solo il vento. Dappertutto, collo, guance, polpacci, sento solo vento addosso. Non si piegano le ginocchia. Poi all’improvviso non sento più niente. L’ho fatto. Sono saltata. Gli occhi ancora chiusi, la pelle d’oca e la pancia che è la prima parte di me che si ribella al resto. La sento che si smuove come una coltellata. Ed è allora che sento di nuovo il mio corpo, che sento l’elastico che tira intorno alle caviglie, e il controbalzo. Di nuovo il vento dappertutto, il panorama grandioso, e l’applauso e le urla di tutti sopra il ponte. Apro gli occhi, rido e piango. La botta più grandiosa della mia vita. Grazie vita.