Elena aveva quel modo di fare da adolescente svampita e seducente. La conosco da dieci anni ed è sempre stata così. Saranno gli occhi chiari, o la voce un po’ roca, sempre bassa. Ti dà sempre l’idea che stia per chiederti di scopare. Poi c’è Lena, santarellina dalle tette spropositate. Santarellina per modo di dire, ovviamente.
Anche stasera ci incontreremo al bar di Livio, e come ogni volta ci sarà il tremendo resoconto. Due oche e una bambina. Secondo me questo sembriamo a chi ci osserva dai tavoli vicini.
A mio avviso il tono di voce è troppo alto, e probabilmente quello che pensano loro è di provare a scuotermi, a rendermi parte del gruppo, e vorrebbero da me lo stesso tipo di racconto. Vanno avanti loro, con i dettagli, gli odori, soprattutto le critiche. Se dovessi fare una sintesi delle mille storie che mi hanno raccontato, alla fine potrei sintetizzare più o meno tutto in “grande – piccolo” e “veloce – lento”. Loro mi guardano come se fossi un alieno. Mi parlano di libertà, di lasciarmi andare, di non aver paura del loro giudizio, e men che meno di quello degli uomini. La cosa è che in realtà loro vorrebbero solo ridere delle sconcerie, come fanno i bimbi quando dicono le prime parolacce, e poi si coprono la bocca con le mani e sogghignano a occhi quasi chiusi. A me la cosa all’inizio divertiva. Più che altro era curiosità. Dopo di che l’entusiasmo si è esaurito, più o meno in concomitanza con gli sfottò, con il loro continuo chiedere. Dalle poche cose che ho detto loro hanno pensato che avrei anche potuto essere vergine. Trent’anni vergine, per loro è come comprendere una formula matematica con le frazioni. Pressoché arabo. Parlare, non parlare. Non credo di farcela, eppure non le reggo più. Ma davvero, non credo capirebbero cosa penso io del sesso.
Quando una volta ho parlato di corde, hanno sgranato gli occhi per poi scoppiare in una fragorosa cianciata. E la loro risata ha esaurito ogni mio desiderio di condividere con loro quello che facevo con Davide. Mi sono fermata lì. Loro non lo sanno che vuol dire. Una volta alla settimana, il mercoledì, in una camera d’albergo. Corde, per fermare i polsi alla testiera del letto. Elastici da ufficio e cavi. Nastro da imballaggio, e la perfetta sincronia dell’intero corpo che si spalma sull’altro, senza penetrazione, solo contando il respiro, trattenendolo insieme. L’intero peso del mio corpo a strofinarsi e a dettare il tempo, fino alla fine. Senza urla, senza fanatismo. Respiro e numeri.
Non mi sembrava vero di poter trovare qualcosa che mi potesse esaltare sul serio, che potesse corrispondere alle mie fantasie. Eppure l’ho trovato. Io non voglio raccontare. Io voglio fare.